Case, ville, torri colombaie
V. Ut copia et fertilitas palumborum habeatur.
Mancando
un quadro cronologico preciso sulla diffusione delle torri colombaie, a partire
dal basso medioevo in avanti, appare difficile tracciare un’evoluzione del
fenomeno da un punto di vista temporale e allo stesso modo, mancando dati
sufficienti sulla loro collocazione geografica nello stesso periodo, risulta altrettanto
difficoltoso stabilire in quali zone ci fu una maggiore presenza di questi
edifici. Un punto di partenza, però, è senz’altro quello che potrebbe derivare
da una catalogazione delle costruzioni superstiti effettuata per zone geografiche
come, ad esempio, quella pur incompleta contenuta sulla collana del C.N.R.
sulle dimore rurali. Ancora, per i periodi successivi, si potrebbe attingere
alla documentazione riportata dai catasti, laddove esistenti, come è stato
fatto in maniera quasi sistematica per le Marche, sotto l’impulso di Sergio
Anselmi, ed i cui risultati sono stati pubblicati nella rivista Proposte e Ricerche[64].
Un’altra fonte a cui attingere, sulla diffusione delle torri colombaie nelle
campagne italiane dal tardo medioevo fino al sec. XVI, oltre a quelle
letterarie, è costituita dagli statuti comunali. Sono però fermamente convinto
che uno studio sistematico di queste torri, operato in base al rilievo grafico,
alla datazione scientifica ed alla comparazione dei numerosi esempi superstiti
in base alle caratteristiche tipologiche, possa portare a risultati molto
interessanti. Quello che si può in questa sede affermare con certezza, in base
alle conoscenze disponibili, è che da un certo momento in poi si è avuta una
consistente diffusione di queste torri: lo si può dedurre dal numero di edifici
ancora esistenti o dalle poche fonti scritte disponibili, archivistiche o
letterarie. Abbiamo visto quelle medievali di Brunetto Latini e del De’
Crescenzi, ma anche nel quattrocento, come vedremo, alcuni dei principali
trattatisti di architettura, quali Leon Battista Alberti e il Filarete, si
interessano a questo tipo di edificio. Il problema è, come al solito, stabilire
una cronologia precisa, ovvero stabilire quando avvenne questa consistente
diffusione e se è possibile relazionarla alle periodizzazioni storiche
dell’agricoltura tra i secoli XII e XV che vedono una prima espansione, un
regresso dovuto alla peste a partire dalla metà del XIV secolo, ed una ripresa
dopo la metà del XV. Qualche indizio, al riguardo, ci viene, come accennavo,
dagli statuti comunali in quanto contengono, in alcuni casi, precise norme sulla
tutela dei colombi, sulle colombaie, o riferimenti che fanno pensare alla
presenza di un numero consistente di queste strutture sia urbane che rurali. Un
dubbio, però, è rappresentato dal fatto che nei testi esaminati, pur essendo
presenti riferimenti precisi alle colombaie, difficilmente questo termine
appare associato a quello di torre. Sono edifici generici, non ben definiti, e
solo in alcuni casi si parla di torri o colombi torraioli. Pertanto il termine
colombaia poteva indicare un qualsiasi tipo di edificio e non necessariamente
una torre, come vedremo, nonostante fosse il più diffuso tipo di struttura
utilizzato per l’allevamento dei colombi.
Fatta
questa premessa, nella selezione che segue[65]
si è cercato di individuare un certo numero di statuti per regione, fra quelle
in cui si ha certezza di una maggiore diffusione per la quantità di torri
superstiti seguendo, laddove possibile, l’evoluzione dello statuto per ogni
città in diversi periodi. Tuttavia se questi testi non possono darci un’idea
precisa sulla diffusione, a livello cronologico o geografico, forniscono
particolari inediti di una certa importanza. Tale incompleta campionatura
riguarda quasi tutte le regioni del centro e nord Italia, con un’eccezione per
la Puglia dove l’alto numero di esempi conservati mi ha indotto a cercare se
esistesse una regolamentazione anche in epoca tardo medievale o rinascimentale.
Per
il periodo relativo al sec. XIII è stata riscontrata, negli otto testi
esaminati, la presenza di norme relative alla tutela di volatili che, tuttavia,
non lasciano intravedere una qualsiasi relazione con i nostri edifici. Sembrano
piuttosto finalizzate a preservare la selvaggina, fra cui i colombi, da una
caccia indiscriminata. Si tratta degli statuti di Spoleto[66],
Pistoia[67],
Bologna[68],
Ferrara[69],
Verona[70],
Novara[71],
Vercelli[72],
Bassano del Grappa[73]
dove, in realtà, esiste un preciso riferimento alla protezione dei colombi
soltanto nei primi tre. In quello di Spoleto, alla rubrica XVIII del Breve
Populi, De pena capientium columbas
domesticas, si fa espresso divieto di catturare colombe domestiche: quicumque ceperit columbas domesticas
solvate bannum XL soldorum et emendet dampnum, ma anche, alla rubrica XXII,
di tenere colombi in città e nei borghi, proibizione che potrebbe spiegare la
grande diffusione di torri colombaie nel territorio di questo comune[74].
Nel testo pistoiese, ancora, la rubrica LXXXIII del libro III prevede una pena
per chi cattura colombi domestici, De
pena capientis columbos domesticos. In quello di Bologna, al libro VIII,
Rub. XLIV, una generica proibizione di cacciare alcune specie di uccelli fra
cui i colombi: Et aliquis non audeat
capere quaglas perdices vel fasanos vel columbos domisticos aliquo modo vel
ingenio cum aliquo predictorum instrumentorum seu artium. Per i restanti
statuti duecenteschi esaminati non si rilevano precisi riferimenti alla caccia
dei colombi.
Nel
secolo successivo si osserva un’evoluzione nelle rubriche degli statuti in
quanto quasi tutti quelli esaminati ne presentano una dedicata alla tutela del
colombo sia domestico che di colombaia e quindi da una generica e sporadica
regolamentazione della caccia si passa ad una tutela generalizzata di questo
volatile estesa, in alcuni casi, anche agli edifici per il loro allevamento.
Questi ultimi sono definiti, in senso vago, colombaie o palombare senza
specificare, tranne che in alcuni casi, se siano esse torri o altri tipi di costruzione.
Un
dato importante che emerge da queste norme è il loro fine: garantire
l’abbondanza di colombi e colombaie. Così, ad esempio, nella Carta del Popolo di Orvieto[75]
(1321-1324) si legge che la proibizione di cacciare colombi è necessaria ut copia et fertilitas palumborum tam in Civitate
quam in comitatu habeatur o, negli Statuti di Ascoli Piceno del 1377[76],
Ordenemo, acciò che l'abundantia de le
palumbare et della penna se possa havere, che nisiuno ardisca piglare overo
occidere alcuni palumbi de qualunqua generatione ovvero manera in ne la ciptà
overo de fora … Anche, se alcuno in ne lu tempo de la nocte fragnesse overo
rompesse alcuna palumbara in ne la quale se ce havesse li palumbi, se ce serrà,
in cento libre de denari sia condempnato per omne fiata et, se de dì in
cinquanta libre de denari. La quale pena, como è dicto de sopra proximamente,
se non la pagarà con effecto infra quindeci dì, da contarse dapo' la
condampnasione facta, la mano a lui sia taglata, si che da lu braccio gle sia
separata. Ancora, gli Statuti di Parma[77]
del 1347 stabiliscono di non catturare questi volatili ut melius forum pupionum domesticorum habeatur o in quelli della
Città di Trento[78]
(prima metà del XIV sec.), dove è proibita la caccia al colombo domestico e
selvatico in quanto le colombaie possano abbondare per l’utilità che comportano
alla città ed al suo territorio, ut
columbariae ad Civitatis, et districtus commoditatem possint abundare o, infine,
negli Statuta di Brescia[79]
del 1313 dove, per avere la maggiore abbondanza di piccioni, ut maxima ubertas habeatur de pipinionibus,
se ne proibisce ancora la cattura. Purtroppo, però, nessun testo trecentesco,
fra quelli esaminati ci fornisce il motivo per cui si doveva avere una grande
abbondanza di colombi e colombaie. La risposta a questa domanda andrà cercata,
come vedremo più avanti, nei testi dei due secoli successivi dove, almeno in un
caso è stata rintracciata una spiegazione più che convincente. Per ora possiamo
solo sottolineare come le norme comunali dei territori presi in esame tendano,
anche con pene molto severe, a proteggere ed incrementare l’allevamento del
colombo.
Come
anticipato, nei dettati statutari si fa riferimento anche ad alcuni tipi di
edifici ed il termine più utilizzato è quello di colombaia. Così, ad esempio, nella
Lombardia dei Visconti dove vengono emanati due decreti, il primo nel 1386 e
l’altro del 1388, contra capientes columbos. Ciò a seguito delle
lamentele di alcuni nobili e sudditi, dovute al grave danno arrecato da chi
cacciava i colombi presso le proprie colombaie, in grave damnum, et
praeiudicium Nobilium, et plurimorum Subditorum nostrorum habentium columbaria.
Pertanto si provvide ad introdurre, nel 1386, una pena per tali cacciatori di
frodo consistente nel pagamento di 20 terzoli estesa, nel 1388, anche a chi
possedesse reti, definite copertoria, atte alla cattura dei colombi e
con la pena modificata in 25 fiorini d’oro per ogni paio di piccioni[80].
Tali decreti compaiono pure negli Statuti di Varese del XIV sec[81]
ed il divieto di catturare il colombo domestico o di colombaio, columbum
domesticum, vel del columbarijs,
è contenuto anche negli Statuti di Como[82]
del 1335 mentre in quelli di Cremona[83]
del 1339 la proibizione è riferita al solo colombo domestico.
In
Abruzzo, nelle norme aquilane, si può leggere del divieto di cacciare colombi
domestici o di colombaia, nullus de
Civitate Aquile et eius districtu debeat capere, celiare, seu cellari facere,
pro columbis domesticis vel de columbaria[84].
Tornando all’Umbria, per lo statuto di Orvieto[85]
si deve sottolineare come il divieto di catturare i colombi si estendeva anche a
chi tirasse sassi o colpi di balestra alle palombare, quis balistaverit ad palumbariam, sive lapides proiecerit.
I
primi accenni alle torri si hanno in Emilia Romagna dove nello statuto di Parma
del 1347[86]
è consentito catturare colombi solo a chi li alleva in una casa, oppure in
colombaia o torre, domum seu columbariam
seu turrim, nella città o nel suo territorio e dove sia solito abitare, in civitate seu burgis seu episcopatu Parmae,
ubi sint et morari consueverint, mentre nello statuto di Mirandola del 1386[87]
si proibisce la cattura del colombo domestico o di torre, columbum domesticum seu toresanum. Nello statuto di Modena del
1327, invece, troviamo la sola proibizione di cacciare colombi[88].
In Toscana il Costituto del comune di Siena[89]
statuisce che neuno tenda o vero tenga o vero teso tenga alcuno graticcio
acconcio ad ucellare o vero alcuno acciuolo in alcuna terra o vero vigna,
presso ad alcuno colombaio ad uno millio … o D’elegere l’officiale
forestiere per guardia de le possession de’ cittadini, ovvero vigne,
arbori, lame, boschi, prati, orti, colombai, mentre a Colle Val D’Elsa[90]
gli Statuta del XIV sec. impongono ai custodes celati di
denunciare in segreto chi cacciasse columbos domesticos, casaiolos vel
turrigianos. Negli statuti di Pisa[91]
del 1313-1337, invece, si ha una generica proibizione di catturare colombi, de
non capiendo columbos.
In Piemonte, negli
Statuti del Comune di Torino[92]
del 1360 si può trovare la stessa proibizione di catturare colombi tranne nel
caso che ciò venga fatto, in Taurino vel finibus, dal proprietario ad suum
columbarium.
Da questi documenti si
possono individuare tre tipi di edificio dove avveniva l’allevamento dei
colombi, domus, turris e columbarium. I
primi due li troviamo nel solo statuto di Parma, il terzo in quasi tutti gli
statuti. Tuttavia una traccia fondamentale è presente in molti degli esempi
riportati: le varietà dei colombi, ovvero quello torraiolo e quello domestico.
Il primo deriva dal colombo selvatico (columba livia), del quale conserva la
capacità di procurarsi cibo nelle campagne, ed è quello che popolava le
colombaie, il secondo, che comprende diverse altre razze, è quello che veniva
allevato e nutrito dall’uomo nelle case. Negli statuti sopra esaminati si fa
spesso riferimento al columbum domesticum vel de columbaria o domesticum seu toresanum distinguendo e
specificando che la norma si riferiva tanto ai colombi domestici che torraioli.
Emblematico poi il caso di Parma dove si consentiva la cattura dei piccioni
solo a chi li allevava in una casa o colombaia o torre dove dimorasse
abitualmente. Alla luce di queste considerazioni, ed in base al riferimento sia
alle città che al loro territorio, presente in quasi tutti gli statuti, è
facile immaginare che tra le strutture definite columbaria vi fossero con certezza anche le torri isolate
disseminate nei territori rurali, insieme a caseforti o altro tipo di
insediamento che potesse ospitare, in sommità, il vano per l’allevamento dei colombi.
Lo possiamo affermare anche in base ai testi del Latini e, soprattutto, del De
Crescenzi che, nel 1305, consiglia di realizzare colombaie ſopra torre di groſſo muro murate. In base poi alla datazione di
questo gruppo trecentesco di testi esaminati, che va dal 1307 (Colle Val
D’Elsa) al 1388 (Milano), appare lecito ipotizzare che una prima importante
diffusione di queste torri, alla metà del ‘300, sia già un fatto compiuto e conseguente
allo sviluppo segnato dall’agricoltura nello stesso periodo.
VI. Tra medioevo e rinascimento.
Il
secolo che va dalla metà del trecento sino a circa il 1450 vede, come noto, un
regresso dell’economia e dell’agricoltura dovuto principalmente alle epidemie
di peste ma, anche, alle guerre ed alla instabilità politica che portarono ad
una nuova e consistente diminuzione della popolazione. Il maggior numero di
perdite, in termini vita umana, si ebbe al centro Italia ed in misura minore al
Nord. Al sud le ondate epidemiche furono meno intense, causando un numero
sensibilmente minore di perdite umane rispetto a quello delle altre zone della
Penisola[93].
Questa concomitanza di eventi portò ad una modifica degli equilibri economici
delle campagne oltre ad un riassetto nel rapporto tra superficie coltivata ed
incolti o tra diversi tipi di colture. Una prima conseguenza fu, infatti, la
diminuzione della coltivazione dei cereali, ad esclusione del grano che
rimaneva ancora la scelta predominante, a vantaggio di altre colture ritenute
più redditizie, dovuta a diversi fattori come la mancanza di manodopera, quali
il lino, la canapa o la vite[94],
colture per le quali la colombina era ritenuta un concime molto adatto[95].
Un’altra importante conseguenza fu l’abbandono di molti terreni agricoli,
generalmente quelli meno fertili, con regresso delle zone coltivate, a
vantaggio dell’incolto, che comportò anche un aumento dell’allevamento di
bovini secondo il metodo della transumanza: « Si crearono così le condizioni
per un forte sviluppo della pratica pastorale, verso la quale – data la
scarsità delle braccia e la lievitazione dei salari agricoli – spingeva anche
il più contenuto impiego di manodopera[96]».
Quest’ultima conseguenza è quella che ci riguarda più da vicino in quanto
comportava una forte carenza di concime bovino e ci fa comprendere l’importanza
attribuita, in questi anni, all’allevamento del colombo anche, e soprattutto,
in funzione della produzione di palombina, così indispensabile alla
coltivazione. Del resto, per questa fase, la carenza di fonti[97]
non consente altro che avanzare alcune ipotesi sulla diffusione o sull’evoluzione
delle torri colombaie ovvero quella per cui, essendosi arrestata la
colonizzazione delle campagne e con un graduale ritorno delle terre incolte,
dei boschi e delle paludi, è facile immaginare un conseguente e quasi totale blocco
della diffusione di questi edifici, ma anche comprendere la serrata protezione,
da parte delle norme statutarie, di quelli esistenti in quanto preziose fonti
di concime, un prodotto che non sarebbe stato possibile reperire in altro modo.
Così, ad esempio, possiamo leggere nello statuto di Lecce di Maria d’Enghien,
promulgato nel 1445 con il titolo Statuta et capitula florentissimae civitatis
Litii[98]:
Imprimi per omne palumbaro cum palumbi deve pagare lo patruno tari duy. Et
sel patruno non volesse pagare dicto dacio per occasione dice non venderende:
ma tenerelo per usu suo: sia tenuto pagare la mieta de dicto dacio. Ma
trovandose vendere o poco, o, assay quantita de dicti palumbi: sia tenuto
pagare tucto dicto datio. … Item che nulla persona ausa occidere, ne menare con
balestra, oy con archi alli palumbi de palumbaro: ne pigliare dicti palumbi con
riti, oy costule excepto se fosse patruno. Dallo statuto di Teramo del
1440, invece, sembra trasparire, nella frase costruendi columbaria, oltre alla volontà di tutelare i colombi, un
segno della ripresa economica che avverrà da li a pochi anni: Videtur
materia et occasio hominibus Civitatis Terami habendi et costruendi columbaria
ad ornatum e utilitatem ipsius Civitatis Terami e hominum. Et ut columborum
copia semper sit in Teramo et districtu presenti Assisia constituimus et
ordinamus, quod nulla persona aucupetur vel aucupari faciat cum rete trapassu
vel alio ministerio sive instrumento quibus consueverunt et verisimiliter
possent capi vel retineri columbi turrerii sive domestici. Nec etiam contra eos
in turribus domibus vel palumbariis su alis quibuscunque locis in Civitate et
districtu stantes volante vel ambulantes sagipta cum balista vel arcu quocunque
neque eos infuget su aliter occidata vel capiat[99].
Verso
la metà del XV sec. inizia un lento e costante processo di ripresa demografica
ed economica, che coinvolge anche le campagne, e che durerà per tutto il XVI
sec. «Gli effetti della ripresa di popolazione a partire dalla metà circa del
XV secolo furono sostanzialmente i medesimi di quelli che si erano verificati
nei secoli XI-XIII». Pertanto « si ebbero nuovamente diboscamenti e messa a
coltura di terre tanto in montagna quanto in pianura, contrazione e
privatizzazione di terre comunali, opere di bonifica e di drenaggio delle acque[100]».
Questo per far fronte alla crescente domanda di prodotti alimentari dovuta all’aumento
di popolazione. È in questa ricolonizzazione delle campagne che si assiste ad
una seconda fase nella diffusione delle colombaie, quando venne realizzato un
cospicuo numero di torri, dei quali tuttora rimangono numerosi esempi
superstiti nelle campagne italiane. Probabilmente, in questi anni, la torre
colombaia diventa realmente il principale strumento con il quale si realizza un
primo avamposto nelle zone rurali, strappate al bosco o alla palude, ancora
malsicure e lontane dai centri abitati in quanto con un investimento relativamente
basso si poteva disporre di un edificio dove dimorare, con un0 certo grado di
protezione, e che rendeva possibile la produzione di concime. Bisogna però
distinguere in quali zone, rispetto alla città o ai centri abitati minori,
avvenne questa seconda diffusione.
Per
la città, come noto, alla prima metà del Quattrocento si ha già una fascia
periurbana ritenuta sicura e dove vengono meno le esigenze difensive che
caratterizzavano le costruzioni rurali del secolo precedente. In queste zone
nascono le prime ville non fortificate come nel caso di Firenze, dove già nella
prima metà del Trecento è nota una forte diffusione di edifici extraurbani[101],
con gli esempi delle ville Medicee del Trebbio (1433), di Cafaggiolo (1451) e
Fiesole (1457) del Michelozzo, e successivamente nella seconda metà del
Quattrocento, di Milano con le “cascine–ville”, ed ancora Roma, Ferrara ed
altre importanti città italiane. Sicuramente le nostre torri isolate non
andranno ricercate in queste zone, dove si era raggiunto un certo grado di
stabilità, ma in zone più esterne e malsicure come erano ancora quelle vicine
ai piccoli centri urbani o quelle ubicate nella fascia di territorio più
lontana dal centro delle città e comunque in territori ritenuti malsicuri.
Purtroppo
per questa seconda fase, nella seconda metà del ‘400, si hanno poche fonti di
tipo letterario. Si tratta però di autori molto importanti, l’Alberti e il
Filarete, che in diversa misura si interessarono a questo tipo di edifici unicamente
però nell’ambito della villa, che iniziava a riapparire di nuovo nel paesaggio
agrario italiano dopo molti secoli dall’epoca romana.
Il
De Re Aedificatoria, che venne
scritto da Leon Battista Alberti intorno al 1450 contiene, nella parte del
Libro V dedicata alla villa[102],
una serie di regole da seguire nella costruzione e nella conduzione delle
colombaie che questo autore identifica, anche se indirettamente, con le torri
quando consiglia di rinchiudere un gheppio sulla cantonata de la torre.
Non si tratta più delle colombaie monofunzionali descritte da Varrone ma, piuttosto,
di vani su torri isolate a più piani, non eccessivamente alte, che appartengono
al complesso della villa o che si stagliano forse, quando dice et per questo pongono le colombaie buone in
luoghi altissimi, sopra i tetti delle costruzioni come l’alta Torricella
nel pretorio descritta da Columella. In alcuni casi, probabilmente, oltre
che di edifici costruiti ex novo si poteva trattare di torri colombaie più
antiche, isolate o inglobate nel complesso di una villa quattrocentesca, come
nel caso della villa medicea La Magia a Quarrata:
Porrai la Colombaia, che
la vegga l'acqua, non la porre troppo alta, ma così a modo, accioche i Colombi
stracchi dal volare, quasi con l'alie scherzando liete, s'allegrino
sducciolarvi ad alie chiuse. Sono alcuni che dicono che le colombe presi i semi
de la Campagna, quanto piu fatica et viaggio haranno a fare a portarli a lor
figliuoli, tanto più gli faranno grossi: Et questo perché i semi portati nel
gozzo per nutrire i figliuoli, con lo starvi assai, diventeranno mezi cotti, et
per questo pongono le colombaie buone in luoghi altissimi. Et forse pensano che
giovi assai che le Colombaie sieno lontane da le acque, accioché giugnendovi, i
Colombi non raffreddino l'uova con i piè molli. Se a la cantonata de la Torre tu
vi rinchiuderai un Gheppio diventerà tal Colombaia sicura dagli Uccelli di
rapina. Se tu nasconderai in su l'entrata un capo di lupo, gittatovi sopra del
Cimino rinchiuso in uno orcio fesso, che getti fuori puzzo, per tal cosa vi
concorreranno una infinità di colombi. Se tu farai lo spazzo de la tua
colombaia di creta, lo bagnerai, et ribagnerai spesso con la orina degli
huomini, lasciando gli altri colombi le sedie de loro Antichi, ti si
multiplicheranno grandissimamente. Fuori de le finestre fa che vi sieno Cornici
di pietra, o Tavole di Ulivo che sportino fuori uno cubito, su per le quali, i
colombi habbino da fermarsi ne lo arrivare, et da le quali habbino a pigliare
il volo nel partirsi. Gli uccelletti minori rinchiusi per il vedere de li
Alberi, et del cielo si marciscono, I Nidij, et le stanzette per li Uccelli, bisogna
farle in luoghi caldi. Ma a quelli, che piu tosto camminano che è volino, bisogna
collocarli bassi et in esso Terreno, a li altri bisogna porli in luoghi piu
alti, Tutti habbino le sponde di quà, et di là per amor di ritenere l'uova, et
i figliolini, che non caschino. Per far i Nidij è piu commodo il loto che la
Calcina, et la Calcina piu che il Gesso. Tutte le sorti di pietra viva sono
cattive, i Mattoni son più utili che il Tuffo, pur che non sieno troppo cotti.
I legnami, o di Oppio o di Abeto, sono utilissimi. Tutte le stanze per gli Uccelli
vogliono essere pulite, pure, nette, e massimo per i colombi. Anzi se il bestiame
ancora di quattro piedi starà in luoghi brutti diventerà scabbioso. Et però
faccinsi in volta arricciate, intonicate, e imbiancate per tutto, et turisi
ogni minimo bucolino, accioche le Faine, le Donnole, et le lucertole, o simili
bestiuole non possino far danno a l'uova, a Pippioncini, o a le mura.
Aggiunghinvisi le Tramoggie da beccare, et gli Abbeveratoi.
Anche nel Trattato di Architettura, scritto
da Antonio Averlino detto il Filarete tra il 1460 ed il 1464, la colombaia presente
in un giardino dell’immaginaria città di Sforzinda (fig. 10) è una torre
fantastica composta da tre ordini sovrapposti di portici a pianta circolare che
sorreggono un volume, dotato di finestrelle per l’accesso dei colombi, con tre
cordoli sporgenti. All’interno di questo ultimo piano i buchi per l’alloggio
dei colombi con una certa pezza di
tegola, ossia il posatoio sporgente. La descrizione nel
testo, che parla di una casa torre a pianta quadrata con tre vani sovrapposti
ed una colombaia in sommità, non risponde completamente al disegno che mostra,
invece, un edificio a pianta circolare e senza vani interni:
![]() |
Figura 10. La colombaia raffigurata nel libro XVI del Trattato del Filarete. |
Dette queste parole si
levarono da tavola, e per lo cortile andati entramo in uno giardino ch'egli
aveva di rieto alla casa, dove Eravi ancora una
colombaia, la quale stava in questa forma: in prima fatta quadra, la quale era
intorno intorno in colonne, come dire uno portico, dove che nel mezzo era un
altro quadro, il quale era di dodici braccia per ogni verso, e questo era una
bella camera, nella quale era una scala che andava di sopra a questo portico, e
di questo n'era scoperto circa di sei braccia, e poi era un altro ordine di
colonne di minore grossezza che non erano quelle di sotto, e niente di meno
un'altra camera era in questo luogo alla dirittura di quella di sotto, e di
questa s'andava in un'altra di sopra, dove che solo uno portico intorno di
grandezza di braccia due. E a questo di sopra, cioè il terzo, era poi uno
quadro sopra a questo terzo che andava alto dodici braccia, il quale, come è
usanza, era tutto pieno di finestre.
E in quella molti
colombi si fuggirono e noi tutti infino in cima salimo e tutto vedemo per
quelle finestre dove che entravano i colombi. Una era come dico che passava il
muro dentro e di fuori, l'altra era dentro la quale non rispondeva di fuori, e
in questa i colombi covavano; le quali ciascuna ha un poco di sportata in fuori
di larghezza di qualche una spanna; questa è una certa pezza di tegola la quale
era murata nel muro al diritto di ciascheduna finestra di quelle che non
rispondono di fuori, cioè in quelle dove i colombi covavano. E quelle che
entravano dentro i colombi non erano a quella dirittura, ma per l'opposito
l'una all'altra stavano, erano in questa forma. Le finestrelle credo che
l'avevano fatte in quella forma per cagione che se entrato fusse qualche
animale per queste donde entrano i colombi, che non possino andare a quelle
dove fanno il nido, e così questa colombaia era ordinata e in questa forma
pareva a vederla.
Sì che, veduto tutto il
giardino e la colombaia, ci ritornamo in casa[103].
Questo
tipo di colombaia descritto da Filarete e di cui, forse, parla l’Alberti avrà
un certo sviluppo, come vedremo, nei parchi delle ville cinquecentesche.
Quanto
alla casa torre colombaia rurale riporto alcuni esempi di torri della seconda
metà del XIV secolo in località del centro Italia. La prima in Umbria, a
Farnetta di Montecastrilli (TR) (foto 17-18) con il cordolo sorretto da mensole
sagomate in mattoni, soprastanti buchi triangolari per l’ingresso dei piccioni,
cornicione classico a mutuli e modanature soprastanti, copertura a padiglione.
Altre due nelle Marche a Pian del Sasso di Cagli (PU), con cordolo ancora
sorretto da mensole in mattoni e copertura a due falde (foto 19) ed a
Sant’Angelo in Vado (PU), detta “La Gavina”. In quest’ultimo esempio si ha una
torre colombaia quattrocentesca inglobata da una villa realizzata nel secolo
successivo (foto 20).
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Foto 17. Colombaia a Farnetta di Montecastrilli (TR). Da https://www.iluoghidelsilenzio.it/wp-content/gallery/torre-della-palombara-farnetta-di-montecastrilli-tr/DSC_0238.jpg |
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Foto 18. Colombaia a Farnetta di Montecastrilli (TR). Da https://www.iluoghidelsilenzio.it/wp-content/gallery/torre-della-palombara-farnetta-di-montecastrilli-tr/DSC_0243.jpg |
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Foto 20. Colombaia "La Gavina" a Sant'Angelo in Vado (PU). Da https://www.lavalledelmetauro.it/lvdm/multimedia/S_angeloGavina.jpg |
Va tuttavia
sottolineato come questo tipo di edificio con cordolo a mensole in mattoni, non
sempre esteso a tutto il perimetro, e cornicione sorretto da mensole classiche
ebbe larga diffusione, con piccole varianti di un linguaggio comune, in molte
regioni d’Italia come l’Emilia Romagna di cui cito l’esempio in località
Scipione Passeri a Salsomaggiore (PR), la Lombardia dove, tra i tanti edifici
simili si possono ricordare quella di Iseo (BS), Colombaia Fenaroli, o a
Provaglio d'Iseo (BS), Colombaia Oldofredi, il Veneto con l’esempio di Villa
Salvioni a Pontecchio Polesine (RO). Non si tratta certo dell’unico tipo
realizzato, in quanto ne esistono molti altri, ma si è scelto questo in quanto
uno dei più diffusi e rappresentativi. Si trova sempre in zone periferiche o
rurali ed aggregato ad aggiunte successive come quasi tutte le case torri
colombaie quattrocentesche, fra le quali l’esempio di Sant’Angelo in Vado
rappresenta un caso estremo per il fatto che le aggiunte sono volumetricamente
molto maggiori rispetto al nucleo originario della torre.
[64] Una tabella riassuntiva di queste indagini, effettuata nelle provincie di Ancona, Macerata e Fermo, dove è riportato, per diversi comuni, il numero di colombaie esistenti desunto dai catasti cinquecenteschi fino alla metà del settecento, è riportato da A. Palombarini, Le palombare nelle Marche, cit. p. 124. Da questa tabella risultano presenti, nei 21 comuni presi in esame, tutti di medie o piccole dimensione, ben 579 palombare.
[65] Sebbene si tratti di una campionatura incompleta e limitata, questa ricerca ha comportato l’esame di una consistente mole di più di 50 testi ed è stata resa possibile dalla reperibilità di molti statuti su Internet. Punto di partenza il sito del Senato della Repubblica dove è possibile accedere alle schede della catalogazione degli statuti medievali dei comuni italiani all’indirizzo: http://notes9.senato.it/w3/biblioteca/catalogoDegliStatutiMedievali.nsf/home?OpenPage. Successivamente ogni singolo testo è stato possibile scaricarlo dal sito della Fondazione Biblioteca Europea di Informazione Cultura, https://www.beic.it/it/articoli/statuti-italiani-localit%C3%A0, oppure da Google Libri all’indirizzo https://books.google.it/advanced_book_search. La scelta delle regioni italiane prese in esame è stata condizionata anche dalla facilità di reperimento del materiale bibliografico in Rete.
[66]. Statuti di Spoleto del 1296, a cura di G. Antonelli. Firenze, 1962. Breve Populi, rubr. XVIII.
[67] Statutum potestatis comunis Pistorii, anni 1296, a cura di L. Zdekauer. Milano, 1888
[68] Statuti di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, a cura di Luigi Frati. Bologna, 1876.
[69] Statuta Ferrariae anno MCCLXXXVII, a cura di William Montorsi. Ferrara, 1955.
[70] Liber iuris civilis urbis Veronae (1228). Verona 1728
[71] Statutis communitatis Novariae anno MCCLXXVII, a cura di Antonio Ceruti. Novara, 1878.
[72] Statuti del comune di Vercelli dell'anno MCCXLI, a cura di G. Adriani. Torino, 1877.
[73] Statuti del comune di Bassano dell'anno 1259 e dell'anno 1295, a cura di Gina Fasoli. Venezia, 1940.
[74]
De pena
tenentium columbas in civitate. Item statuimus et ordinamus, quod nulla persona
habere vel tenere possit aliquas columbas domesticas in civitatem vel burgis.
[75] Capitula carte populi civitatis wetani. In Codice diplomatico della città di Orvieto, a cura di Luigi Fumi. Firenze, 1884. Rubr. CXVJ.
[76] Statuti di Ascoli Piceno del 1377, a cura di L. Zdekauer e P. Sella. Roma, 1910. L. III, rubr. XVII.
[77] Statuta communis Parmae anni MCCCXLVII, a cura di A. Ronchini. Parma, 1860. L. IV, De poena capiencium columbos domesticos, et de modo observando per ocellatores, p. 355.
[78] Statuti della città di Trento, a cura di T. Gar. Trento, 1858. Libro II, cap. 1253.
[79] Statuta Civitatis Brixiae. HistoriaePatriae Monumenta Edita Iussu Regis Karoli Alberti, tomo XVI. LegesMunicipales. Tomo II, p. 1674, Vol. I, Rubricae statuto rum offitii malefitorum, rubr. CLXIIII.
[80] Il primo Decretum contra capientes columbos è
del 12 aprile 1386, Dat. Mediolani die xij Aprilis MCCCLXXXVI. Il
secondo Decretum contra capiente columbos et tenentes retes è del 27
giugno 1388, Dat. Mediolani die yigesimo septimo Iunij.MCCCLXXXVIII.,
undecima Indictione. I due decreti sono contenuti in Antiqua Ducum
Mediolani Decreta. Milano 1654.
[81] Statuta burgi et castellantiae de Varisio, a
cura di F. Berlan. Milano, 1864. Sono un’aggiunta agli Statuti del 1347. Nella
nota 32, p. 76, si può leggere, a proposito di questi due decreti, che «Questa legge tutelatrice delle colombaie è inserita
negli Statuti di altre Comunità lombarde. Le colombaie nel secolo XIII erano
più tane da ladri che nidi da colombi; perciò leggiamo nella Cronaca di Donato
Bossio, sotto l'anno 1266: Eodem anno Napo (Turrensis) columbaria omnia per
agrum Comitatus Mediolani dirui iussit, latebras illa latronum ac propugnacula
dictitans. Gli Statuti di Campiglione multavano in lire tre di terzuoli chi
avesse preso od ucciso colombi, e per ogni colombo preso, ucciso, percosso, aut quomodolibet molestato (Cap. LVI)».
[82] Statuti di Como Volumen Magnum, a cura di Guido Manganelli. Como, 1936. Vol. I, rubr. CLXIIII, De penna capientium columbos.
[83] Statuta civitatis Cremonae. Brescia, 1485. Rubr. 226, de paena capientis columbos domesticos, et tenentes stalonos super ludis. Questi Statuti risalgono al 1339 e sono stati pubblicati con aggiunte nel 1485.
[84] Statuta Civitatis Aquile [1315], a cura di A. Clementi. Roma, 1977. Cap. 486 (CCCCLXXX): DE PENA CELLANTIUM PRO PALUMBOS.
[85] Capitula carte populi …, cit., Rubr. CXVJ.
[86] Statuta communis Parmae, cit.. L. IV, De poena capiencium [sic] columbos domesticos, et de modo observando per ocellatores, p. 308.
[87] Statuti della terra del comune della
Mirandola e della corte di Quarantola riformati nell’anno MCCCLXXXVI, a
cura di F. Molinari. Modena, 1885. Libro I, De pena capientium aves et
lepores. P. 8.
[88] Statuta civitatis Mutine anno 1327 reformata, a cura di P. Fiaccadori. Parma, 1864. Rubr. CXXVII: De columbis non capiendis nec trapola tenenda.
[89] Il costituto del comune di Siena, volgarizzato nel 1309-1310. Siena, 1903. Volume 2, p. 269.
[90] Statuta antique communis Collis Vallis Else (1307 - 1407), a cura di R. Ninci. Perugia, 1999. Statuti 1307, L. X, rubr. CXLVIII.
[91] Statuti inediti della città di Pisa, a cura di F. Bonaini. Firenze, 1870. L. III, cap. III.
[92] Gli Statuti del Comune di Torino del 1360, a cura di D. Bizzarri. Torino, 1933. Rubr. CLII, p. 75.
[93] L. Chiappa Mauri, Popolazione, popolamento …, cit, p. 47.
[94] Ivi, pp. 48, 49.
[95] A. Cortonesi, L’Allevamento, in Storia dell’agricoltura italiana …, cit., pp. 113, 114.
[96] Ivi, p. 93.
[97] In effetti è agli inizi del XIV sec. che risale La divina villa, un trattato di agricoltura scritto dal nobile perugino Corniolo Della Cornia. Nel Libro X è presente un capitolo dedicato ai colombi ed alle colombaie che, tuttavia, non ci fornisce notizie rilevanti sull’evoluzione o diffusione di queste costruzioni. L. Bonelli Conenna, La Divina Villa di Corniolo della Cornia. Siena, 1982.
[98] M. Pastore, Il Codice di Maria D’Enghien, pp. 43 e 64. Galatina, 1979.
[99] Statuti del Comune di Teramo del 1440, a cura di F. Savini. Firenze, 1889. L. III, rubr. XXVI.
[100] G. CHERUBINI, L’Italia rurale del basso Medioevo, Bari, 1984, pp. 38-39.
[101] Riporto un brano del 1338, molto noto, della Cronica del Villani: Ell’era dentro bene albergata di molti belli palagi e case, e al continovo in questi tempi s’edificava, migliorando i lavori di farli agiati a ricchi, recando di fuori asempro d’ogni miglioramento e bellezza … Ma ssi magnifica cosa era a vedere, ch’uno forestiere non usato venendo di fuori, i più credeano per li ricchi difici d’intorno a tre miglia che tutto fosse della città al modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri e cortili, giardini murati più lungi alla città, che innaltre contrade sarebbono chiamati castella. In somma si stimava che intorno alla città VI miglia avea più d’abituri ricchi e nobili che recandoli insieme due Firenze non avrebbono tante: e basti assai avere detto de’ fatti di Firenze. G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta. Parma 1991. Lib. XII, rub. XCVI.
[102] L’Architettura di Leonbatista Alberti tradotta in Lingua
Fiorentina da Cosimo Bartoli, Gentilhuomo, & Academico Fiorentino. Venezia, 1565. L. V, cap. XVI, Che la industria del
fattore di Villa si debbe esercitare tanto circa i Bestiami, quanto circa le
Ricolte, et circa il far l'Aia.
[103] Antonio
Averlino detto il Filarete, Trattato di architettura. A cura di Anna Maria Finoli. Commento e
note di Liliana Grassi. Il Polifilo, 1972. Libro
XVI.
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