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LA CERAMICA DI POLLENZA. Prima parte.

Introduzione

     Come più volte ho avuto modo di dire o scrivere, fino ad oggi non è mai stata pubblicata una vera e propria storia della ceramica di Pollenza. Esiste certo il “Piano di Lavoro” del Boldorini, punto di partenza di tutti gli studi fino ad ora realizzati su questo argomento, ma si trattava unicamente di una serie di appunti, basati sull’ampia ricerca archivistica da lui effettuata negli anni ’40-‘50 dello scorso secolo, che non aveva però l’ambizione di definirsi una storia di questa attività. Neanche io ho mai voluto addentrarmi nell’impresa, nonostante le numerose ricerche realizzate, in quanto speravo di approfondire maggiormente l’argomento, soprattutto in relazione alla produzione delle varie fabbriche che si sono succedute nel corso dei secoli. Tuttavia sono giunto alla conclusione che sia meglio pubblicare quanto ho scritto, alcuni anni or sono, anziché lasciare tutto in un cassetto. Tale studio, sebbene costituisca una ricerca palesemente incompleta, può costituire una base di lavoro per pubblicazioni future che auspico vengano svolte da esperti della materia che dovessero interessarsi a questo filone di ricerca.
    Del resto parlare di Storia della ceramica di Pollenza è un qualcosa che può apparire forse sproporzionato se rapportato al reale valore di tale attività che è stata ed è tuttora considerata, salvo pochi casi, una produzione di carattere minore, di scarsissima importanza. In realtà credo proprio che le cose siano andate diversamente come dimostra, ad esempio, l’interesse che queste vicende suscitarono al Boldorini o al pittore pollentino Giuseppe Fammilume.
     All’opera di quest’ultimo si deve la presenza, al Museo Comunale, di quasi tutto il materiale che costituisce la civica collezione di ceramica, mentre al Boldorini si devono, ripeto, le prime ricerche archivistiche e la stesura del “Piano”. Senza il loro contributo oggi avremmo soltanto un vago ricordo di questa attività che fu, invece, molto importante per il nostro comune. Il loro merito è anche quello di aver capito che tutto quello che ancora si ricordava, in quanto l’ultima generazione di ceramisti era ancora viva e vegeta, sarebbe presto caduto nel dimenticatoio. Tutte le ceramiche presenti al Museo Comunale il Fammilume le ebbe in dono, intorno agli anni 40-50 del ‘900, da ceramisti ancora viventi o da pollentini che ricordavano le fabbriche e la loro produzione. Per queste persone era scontato che questi pezzi fossero stati realizzati a Pollenza. Ma ora, a distanza di un secolo dalla chiusura delle ultime fabbriche, se qualcuno ci chiedesse come facciamo ad essere sicuri che una parte della la produzione di Pollenza nell’800 sia proprio questa rimarremmo a bocca aperta senza sapere cosa rispondere. Come facciamo ad essere sicuri che questi pezzi sono di Pollenza? Non sono firmati perché i ceramisti pollentini, salvo rari casi e fino alla prima metà dell’800, non identificavano mai i loro prodotti. Possiamo fare ciò soltanto con il metodo dell’analogia stilistica con pezzi sicuri o, nel raro caso del corredo da farmacia dell’Ospedale di Gubbio, con la ricevuta di pagamento e, ancora, con gli scarti di fornace. Va sottolineato come per quasi tutti i pezzi ricondotti alla nostra produzione è stata utilizzata una di queste metodologie.
     Infine, se la collezione presente al Museo Comunale ha avuto il merito di “salvare” sia pur parzialmente il ricordo delle nostre fabbriche da una più che certa damnatio memoriae, esiste anche un risvolto negativo, in quanto ha contribuito a radicare l’idea che la ceramica di Pollenza fosse quella e basta, maiolica bianca decorata con motivi semplici in blu cobalto, una produzione dai caratteri poco significativi che è stata sempre snobbata dagli studiosi. In realtà non si può ridurre una produzione di svariati milioni di pezzi ed avvenuta in più di quattro secoli ad un unico stile, peraltro ottocentesco. Come vedremo la produzione ceramica di Pollenza è una cosa ben più ampia e notevole.



Il Cinquecento e il Seicento

I   Le origini

     La vicenda delle fabbriche di maiolica a Monte Milone ha inizio, come noto, nel 1509[1] quando, ut in dicta terra sit copia rerum necessariorum[2], il Consiglio di Credenza accordò il permesso di impiantare una vaseria in paese ad un certo Girolamo da Ancona.
     È questa la notizia più antica, finora a noi nota, relativa all'esistenza di una vaseria in Monte Milone. Dai verbali dei consigli comunali si apprende, infatti che il 18 novembre venne presentata al Consiglio di credenza una supplica del vasaio che chiedeva una casa, due salme di grano, sei o otto fiorini in prestito per un anno. Nello stesso consiglio fu stabilito che i priori eleggessero un individuo per quartiere che insieme a loro esaminasse la supplica. A tenore dell'incarico avuto i priori elessero quattro deputati e insieme a loro, in data 25 novembre 1509, si riunirono nella cucina del comune per decidere in merito alla supplica. All'unanimità stabilirono di accordare al richiedente il permesso di lavorare in paese perché questo non fosse sprovvisto delle cose necessarie; di donargli tre fiorini per l'affitto della casa; di prestargli per un anno due salme di grano e quattro fiorini.
     Perché la comunità non restasse defraudata, chiesero una garanzia circa la restituzione delle due salme di grano ed i quattro fiorini. Tale garanzia fu data da Ranaldo di Sante che, come consta dai libri dei malefici del 1510, dovette sborsare un fiorino e 4 bolognini come parziale restituzione dei danari imprestati al detto vasaio.
     Non sappiamo se Girolamo abbia o no continuato il suo lavoro in paese, ma da una delibera[3] del 1533 si apprende che il Comune perché, non si disvie l'arte da Monte Milone, per indurre gli artigiani forastieri a rimanere o ad entrare in paese, deliberò di accordare loro gli stessi diritti e privilegi dei cittadini, finché fossero rimasti in Monte Milone. Nell'elenco delle arti che si intendevano privilegiare erano inclusi anche gli artigiani fornaciari vasari.

     Certamente questa attività si sviluppò notevolmente nel corso degli anni e possiamo affermare con certezza, in base ad una prima ed incompleta ricerca fra gli atti dell’Archivio Notarile, che verso la fine del secolo erano attive all’interno delle mura alcune botteghe di vasai. Si tratta di quelle di Giovanni del fu Amico pellipario di Monte Milone, di Valentino di Simone di Monte Milone, di Rocco di Sante, di Valerio del fu Francesco di Monte Milone, di Bastiano di Benedetto[4].


II  Le fabbriche nel XVII secolo.

     Con molta probabilità agli inizi del XVII secolo oltre ad una vaseria situata presso la Porta del Colle, le cui vicende sono in parte documentate da fonti archivistiche, esistevano ancora nel comune di Monte Milone le stesse botteghe presenti alla fine del ‘500. Questa circostanza, che alla luce delle carte esaminate appare molto più di una semplice ipotesi, è avvalorata dalla presenza, nel piccolo centro della Marca, di diversi uomini la cui attività, nel primo trentennio del '600, era quella di vasaro. Esaminando infatti un registro dei morti dal 1612 al 1630[5], conservato presso l'archivio della Chiesa di San Biagio, emergono in più occasioni alcuni nomi di vasai, spesso preceduti dal termine, abbreviato, mastro. Questa parola se non assume il significato di artigiano o artefice provetto, maestro, veniva spesso utilizzata, come dimostrano altri documenti coevi montemilonesi, per definire il proprietario o direttore di una bottega. Pertanto la compresenza di più maestri vasai o, anche, di semplici vasari sta sicuramente a dimostrare l'esistenza di più botteghe e, conseguentemente, non è azzardato ipotizzare che l'attività di produzione della ceramica in questo periodo dovesse essere molto fiorente, nonostante appaia molto difficile, allo stato attuale delle conoscenze, attribuire alcun pezzo conosciuto a queste vaserie.
     Questo registro, contenente uno scarno elenco di date e nomi, ci dà notizia della morte di alcuni vasai che qui operarono in quegli anni o di persone a loro legate da vincolo di parentela o in altro modo. In data 4 febbraio 1613 si può leggere, ad esempio, che morì un garzone di Valentino Vasaro in S. Biagio o, il 7 marzo dello stesso anno, morì la figlia della volpe vasaro in S. Biagio: si tratta di un certo Benedetto da Bastiano alias della volpe che morì il 30 aprile del 1630. Ancora, nel 1613, morì la figlia di Compar Ludovico vasaro. In data 21 dicembre 1621 si ha notizia della morte di una putta di un'anno incirca figlia di mastro Santi Vasaro, ed Aurelia sua moglie: lo stesso Sante morì nell'agosto del 1629.
     Mastro Valentino Attorretti morì il 29 ottobre 1621. Era sposato con una certa Cintia di Monte Milone[6] ed a lei lasciò in eredità una domus cum fornace situata fuori dalle mura, presso la Porta del Colle, in Contrada Valle. Dopo la morte del marito la donna diede in affitto la vaseria ad un certo Mercurio vasaro da Tolentino e, dopo la scomparsa di quest'ultimo avvenuta il 28 dicembre 1632[7], a un tale Settimio del fu Francesco Mariani da Tolentino.
     Nel 1634, per disposizione testamentaria[8] di Cintia Attorretti, morta il 14 settembre dello stesso anno[9], l'immobile dove aveva sede la vaseria divenne di proprietà delle monache del Monastero di San Giuseppe di Monte Milone con l'onere, per queste ultime, di far celebrare due uffici per l'anima della testatrice. Alcuni anni dopo, nel 1641, dato che la bottega

per essere mala acchoncia et antica ogni anno [aveva] bisogno di essere aggiustata e per lo raggiustamento vi [andava] bona parte del nuolo perché in Monte Milone li pigionanti non pagano mai le spese che si fanno nello risarcimento delle case ma si bene li stessi padroni

le suore, onde evitare il grave dispendio che avrebbe comportato il mantenimento dello stabile, decisero di venderlo allo stesso Mariani[10], per la somma di 125 scudi, con l'intenzione di investire il ricavato in censi, dai quali avrebbero avuto una rendita pari all'introito dell'affitto.
     Questa ed altre notizie sulla fabbrica della Porta del Colle nella prima metà del secolo sono deducibili, oltre che da alcuni rogiti notarili, dagli atti di un processetto del 1661, individuati dal Boldorini[11] presso l'archivio della Curia Vescovile di Macerata, dai quali si apprende che, una volta effettuato il contratto di vendita, l'acquirente sborsò 100 scudi, investiti in un censo e nonostante in possesso della bottega e dell'orto attiguo, il compratore si rifiutò di pagare gli altri 25 scudi poiché le suore non avevano ottenuto la promessa convalidazione apostolica della vendita. In seguito a tale rifiuto le monache si rivolsero alla S. Congregazione del Concilio che, nel 1645, rimise la soluzione al Vescovo di Macerata. Questi, in data 11 febbraio 1669[12], convalidò la vendita della bottega e dell'orto per i 125 scudi che le suore avrebbero però dovuto investire in beni stabili anziché in censi.
     Settimio Mariani morì il 27 settembre 1674[13] e, per alcune generazioni, la proprietà della vaseria presso la Porta del Colle continuò ad essere dei suoi eredi diretti che ne assunsero, probabilmente, anche la direzione. Il figlio, Francesco, fu attivo fino al 1730 circa e, dopo la sua morte, Nicola Agostino Mariani continuò l'attività degli avi fino al 1741, quando morì lasciando in eredità la bottega alla moglie ed al figlio Francesco.
     Le poche notizie a nostra disposizione non consentono una ricostruzione più ampia delle vicende che caratterizzarono l'attività dei vasai montemilonesi in questo periodo. Ma lo scopo delle ricerche sin qui effettuate era soltanto quello di costruire un quadro abbastanza attendibile di date e nomi, molti dei quali finora sconosciuti, sul quale basare ulteriori studi, con i quali sarà forse possibile stabilire con certezza la qualità degli oggetti in ceramica realizzati nel corso dei due secoli. I numerosi frammenti rinvenuti nelle demolizioni di edifici, operate in epoca recente all'interno della cinta muraria del paese, indurrebbero ad ipotizzare un livello della produzione relativamente elevato. Questa possibilità potrebbe essere avvalorata da un documento, relativo all'attività di Settimio Mariani, che dimostra come fin dai primi decenni del XVII secolo, erano presenti nel territorio comunale alcuni macinetti per la fabbricazione di colori da utilizzare per la decorazione delle ceramiche. Nel 1658, infatti, il vasaio chiese ed ottenne il permesso di collocarne uno presso il vallato che conduceva l'acqua al molino del fiume Potenza. Nel verbale del Consiglio Comunale del 18 agosto si può leggere, infatti:

     Che a Settimio Mariani si conceda il luogo da fare il macinetto da colori vicino al Molino da olio in Potenza, essendo che altre volte vi sia stato, e che si vede che non apporta pregiudizio nessuno, ne danno al Pubblico, né al detto Molino.[14]

     Quanto ai frammenti, dobbiamo ricordare che intorno agli anni 1930-40, a seguito della demolizione di un torrione presso l'allora caserma dei Carabinieri e di un'altra casa in via XX Settembre, ne vennero rinvenuti alcuni per i quali, il pittore Giuseppe Fammilume, interpellò uno dei massimi studiosi in materia, Gaetano Ballardini, inviandogli alcune foto insieme alla seguente lettera[15]:

     Pochi anni fa, durante la demolizione di alcune fondamenta delle mura castellane vennero in luce molti piccoli frammenti di ceramica antica appartenenti ai secoli XVI - XVII - XVIII - e presero possesso di essi il sig. Antonio Tamagnini e Remo Marinozzi e figli i quali ne fecero, in un secondo tempo, dono al Melograno.
     In molteplici confronti si avvicinano nella parte artistica come linea e come colore alle produzioni delle celebri fabbriche di Urbino, Castel Durante e Pesaro.
     Si può pensare che siano provenienti dalle dette fabbriche, ma lo si esclude per il fatto che dal 1500 al 1900 vi è stata in questo paese una continua produzione più o meno importante....
     Nei frammenti rinvenuti la figura è ben poco rappresentata e nessuna traccia poi per quello che riguarda paesaggio, scene mitologiche, motivi bestiali, mascheroni, trofei, ecc. La parte figurativa dunque è manifestata da un piccolissimo putto (non intero), da un elegante profilo di donna (purtroppo anch'esso non intero) con acconciatura in voga e con dedica Catarina eseguito con destrezza: probabilmente appartengono al sec. XV. In tutti gli altri frammenti trovati vi si nota una ricchezza di motivi ornamentali e geometrici di segno sciatto e con giochi di colore gialletto, giallo arancio, azzurro pallido e azzurro cupo come i cieli di notte; i verdi freddi e i verdi giallastri come fattura è sbrigativa e compediaria rivelando tali sistemi praticati nei secoli XVII e XVIII. Qualche frammento è a riflesso metallico. Importanti per linea sono le lucerne non verniciate di uso domestico.

     Il Ballardini così si espresse, con lettera[16] datata 14 febbraio 1941, relativamente ai frammenti:

     I frammenti appaiono di materia povera con temi minori che hanno persistito, nel repertorio delle botteghe dell'Italia centrale, per vari secoli: dal XV al XVII. Anche qui devesi lamentare la scarsezza dei residui che impediscono di giudicare adeguatamente.
     Ritengo consigliabile la conservazione e la eventuale esposizione di questi come di altri cimeli che avessero a rinvenirsi in seguito.

     Quanto alle lucerne riteniamo utile riportare le osservazioni del Boldorini[17]:

     Particolare degno di nota, è il fatto che insieme ai rottami si sono rinvenute varie lucerne grezze, non verniciate. Il che, a detta di Venanzoli [Ignazio], non si spiega se non ammettendo che erano scarti di fabbricazione locale. Non si può supporre che i Pollentini andassero ad acquistare fuori dal paese lucerne porose, non atte a contenere il liquido.




[1] Non si hanno notizie di vaserie esistenti precedentemente a questa data ma ciò non esclude che ce ne fossero di più antiche. Girolamo, non essendo presente il suo nome nell'elenco dei fumanti del 13 ottobre 1509, doveva essere giunto in paese da poco: Archivio Storico Comunale (da ora in avanti A. S. C.), Verbali dei Consigli Comunali, 1502-1509.
[2] Idem. Questa, come le altre notizie finora a noi note relativamente al secolo in questione, sono frutto delle ricerche di don Nazzareno Boldorini operate mediante uno studio sistematico dei libri dei verbali dei consigli comunali di Monte Milone, conservati tuttora presso la sede del Municipio del Comune di Pollenza. Il sacerdote poté effettuare, inoltre, alcune ricerche nell'Archivio della Curia Vescovile di Macerata dove, nel fondo della S. Congregazione del Concilio, rintracciò, come vedremo, alcune preziose notizie per quanto riguarda le vicende della prima metà del XVII secolo. A lui si devono, infine, una sommaria ricostruzione della parte relativa al '700, operata ancora mediante ricerche nei volumi dei verbali dei consigli comunali, nonché la scoperta, presso l'Archivio di Stato di Roma, di tutto il materiale riguardante il Verdinelli e la privativa pontificia per la fabbricazione della maiolica. Quasi tutte le notizie da lui raccolte vennero poi a formare la base di un breve saggio, pubblicato parecchi anni dopo la sua morte avvenuta nel 1959 (La ceramica di Pollenza. Quattro secoli di creatività, a cura di Alvaro Valentini, Pollenza 1998), dal titolo Piano di lavoro per la ricerca di notizie sull'industria ceramica in Monte Milone (Pollenza).
[3] A. S. C., Verbali dei Consigli Comunali, 1532-1555.
[4] Notizie desunte dagli atti notarili del fondo Archivio Notarile di Macerata
6 ottobre 1586           Ioannes q. Amici pelliparij de Mon. Mil.~  (sulla rubricella viene definito Gio: Vasaro): vende una casa a Valentino Simonis figulo de d.a Terra Mon Milonis una eiusdem Ioanni domu sita in Terra Mon Milonis in quarterio S.ti Andrea iuxta domu Rocchi Santis figuli ab alio latere. [vol. 1302 - c. 111] Notaio Palmesiani Giuseppe.
27 ottobre 1586         Ioannes q. Amici pelliparij de Mon. Mil.~  (sulla rubricella viene definito Gio: Vasaro): imposizione di censo su una sua casa. [vol. 1302 - c. 118] Notaio Palmesiani Giuseppe.
20 novembre 1586    Ioannes q. Amici pelliparij de Mon. Mil.~  (sulla rubricella viene definito Gio: Vasaro): paga un debito di 25 fiorini a Matteo Assortati. [vol. 1302 - c. 134 v] Notaio Palmesiani Giuseppe.
novembre 1586         Atto di Bastiano di Benedetto vasaio [vol. 1302 - c. 136] Notaio Palmesiani Giuseppe.
01 aprile 1587            Valentinus q. Simonis figuli de Mon~ Milonis prende in prestito 21 fiorini da Giuseppe Amici di Monte Milone [vol. 1303 - c. 29v] Notaio Palmesiani Giuseppe.

06 aprile 1587            Valentinus q. Simonis figuli de terra Mon~ Milonis vende ad Ansovino di Domenico una~ ipsius Valentini domu~ sita~ in terra Mon Mi. in quarterio S. Andrea, iuxta … domu~ Rocci figuli … pro pretio florenos ducentos … [vol. 1303 - c. 35] Notaio Palmesiani Giuseppe.
15 ottobre 1587         Ioannes q. Amici pelliparij de Mon. Mil.~  (sulla rubricella viene definito Gio: Vasaro): riceve la somma di cento fiorini da Valentinus q. Simonis figuli come pagamento finale della casa che gli aveva venduto il 6 ottobre 1586. [vol. 1303 - c. 91] Notaio Palmesiani Giuseppe.
18 febbraio 1588       Valerius q. Franc.~ figulus et Franc.~ eius filius de terra Mon.~  Mil.~ vendono un pezzo di terra sito in contrada Cantagallo a Francesco Malvezzi. [vol. 1303 - c 147v] Notaio Palmesiani Giuseppe.
18 febbraio 1588       Atto senza importanza di Valerius q. Franc.~ figulus et Franc.~ eius filius de terra Mon.~  Mil.~. [vol. 1303 - c 148v] Notaio Palmesiani Giuseppe.
18 febbraio 1588       Atto senza importanza tra Valerius q. Franc.~ figulus et Franc.~ eius filius de terra Mon.~  Mil.~. e Ioannes q. Amici pelliparij de Mon. Mil.~ [vol. 1303 - c 149v] Notaio Palmesiani Giuseppe.
07 ottobre 1603         Testamento di Valentinus q. Simonis figuli di M. milonis: nomina Cinthia Martini eius uxorem sua erede. [vol. 1742 - c 66v]

[5] Pollenza, Archivio Parrocchiale e Capitolare della Collegiata di San Biagio (da ora in avanti A.P.C.), Registri dei Morti, vol. I, 1612-1630.
[6] A.S. Macerata, Notarile di Macerata, vol. 2057.
[7] A.P.C., Registri dei Morti, vol. II, 1631-1666.
[8] A.S. Macerata, Notarile di Macerata, vol. 1746.
[9] A.P.C., Registri dei Morti, vol. II, 1631-1666.
[10] A.S. Macerata, Notarile di Macerata, vol. 1780.
[11] N. Boldorini, Piano di lavoro..., op. cit. p. 24.
[12] A.S. Macerata, Notarile di Macerata, vol. 3148. Nell'atto, rogato a Monte Milone in data 18 maggio 1669, l'immobile viene definito Domus cum fornace da cocer vase.
[13] A.P.C., Registri dei Morti, vol. III, 1667-1710.
[14] A. S. C., Verbali dei Consigli Comunali, vol. 1654-1662, c. 173 r. e v. È il primo atto ufficiale che attesta la presenza dei molini per la macinazione dei colori presso il detto luogo dove, come vedremo, intorno alla metà del '700 ne verranno impiantati altri. L'importanza del documento è anche nel fatto di dimostrare l'utilizzo di questi macinetti precedentemente alla data del verbale.
[15] Archivio Corporazione del Melograno - Pollenza ( da ora in avanti A.C.M.P), Busta "Ceramica", Prot. 1527.
[16] A.C.M.P., Busta "Ceramica", Prot. 1253. La parte iniziale della lettera qui pubblicata contiene un parere relativo ad un piatto che il Fammilume attribuiva alla fabbrica Verdinelli.
[17] N. Boldorini, Piano di lavoro..., op. cit. p. 24.

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